La storia del Cappone ripieno

 

In passato quasi tutte le famiglie della buona borghesia usavano cucinarlo il giorno di Natale, e anche nelle case più modeste questo non poteva mancare, o perché regalato in cambio di particolari servigi o perché, semplicemente, comprato al mercato anche a costo di notevoli sacrifici.

I secondi del di di festa solitamente erano più di uno, a volte anche tre o quattro. Il più importante era sicuramente il cappone. Ingrassato a forza, il cappone veniva allevato nelle cucine o in appositi cortili nei quali non aveva molta possibilità di muoversi, e veniva nutrito con quanto di meglio era disponibile, proprio per farlo ingrassare il più possibile. Nel milanese ogni famiglia allevava in media quattro capponi, che venivano mangiati rispettivamente a Sant’Ambrogio, a Natale, a Capodanno e all’Epifania. Il cappone veniva servito arrostito e ripieno di noci, castagne, salsiccia, mele, prugne. Dal dopoguerra molti hanno pensato di sostituire il cappone con il tacchino, sempre riempito di ogni ben di dio.
 

 

Dai Promessi Sposi di Manzoni


‘Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que' signori. Raccontategli tutto l' accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno. Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l' approvò; e Agnese, superba d'averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo…
‘Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano d'un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura’.

Due considerazioni rendono questa citazione di valore. Una di carattere generale: non fa mai male rileggere un bel prezzo di prosa di quello che non sarà stato forse il più prolifico e veloce, ma che certo rimane uno dei più grandi scrittori italiani. E un’altra di carattere specifico: a nostra conoscenza, in nessun altro luogo, per così dire, culturale, il cappone ha avuto - per usare un termine che ‘don Lisander’ avrebbe aborrito - tanta ‘visibilità’. Ed ha visto raccontato con pari efficacia il ruolo che ricopre da almeno duemila anni: quello di cibo pregiato, da destinare alle occasioni importanti della vita.

 Una storia ‘delicata’

Inutile usare perifrasi: la storia del cappone è la storia della castrazione applicata, ovviamente, al settore avicolo. Una tecnica praticata già dai Greci e dai Romani, specie sul gallo. Sembra che fossero gli abitanti dell’ isola egea di Delo a praticare per primi, fin dal VII secolo a.C., la trasformazione del gallo in cappone. Da qui il nome di ‘deliacus gallinarius’ attribuito a chi praticava la castrazione dei galli da scrittori come Cicerone, Plinio e Columella. E ancora nell’Ottocento, in Francia, il pollivendolo veniva chiamato dagli anziani contadini ‘déliaque’.
Il nome di cappone, invece, è romano: così vengono chiamati da Varrone (I sec. a.C.) i galli evirati. Il solo a soffermarsi con precisione sulla loro trasformazione è però Columella, il quale scrive che al gallo castrato non solo vengono tolti gli organi genitali (‘amissis genitalibus’), ma anche bruciati con un ferro rovente gli speroni, ricoprendo le ferite con creta. Questa pratica è rimasta sostanzialmente invariata fino all’avvento dell’avicoltura moderna, avendo come pressoché unica depositaria una precisa figura domestica: quella della massaia contadina.
In genere l’operazione era eseguita in modo alquanto primitivo. Solo a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, nei moderni allevamenti avicoli è stato adottato un nuovo metodo di castrazione, che senza i grossi traumi di quello tradizionale, raggiunge ugualmente lo scopo. è ancora consuetudine asportare cresta e bargigli, ma solo per ragioni commerciali, in modo da differenziare il cappone dal gallo al momento della vendita